È stato selezionato nel primo gruppo in assoluto di cosmonauti, ma il suo primo volo è stato rimandato diverse volte per motivi indipendenti dalle sue qualifiche. Quando finalmente è riuscito ad andare nello spazio, ha avuto un incidente che l’ha portato a un soffio dalla morte, ma è sopravvissuto ed è tornato nello spazio, dove ha di nuovo rischiato di morire. Ce l’ha fatta di nuovo ed è sopravvissuto fino a oggi. È Boris Volynov, il primo ebreo nello spazio.
(continua)
Boris Valentinovič Volynov nasce in Siberia nel 1934, figlio di una pediatra ebrea che deve crescerlo da sola. Impara a pilotare gli aerei da un veterano della seconda guerra mondiale, sposa una sua compagna di scuola e si laurea in ingegneria. Nel 1960 entra a far parte del primo gruppo di cosmonauti, quello di Jurij Gagarin, e viene selezionato come pilota di riserva sulle Vostok 3, 4 e 5.
Nel 1964 dovrebbe comandare la Voschod 1 ma l’equipaggio viene cambiato tre giorni prima del lancio, probabilmente perché la madre di Volynov è ebrea e il padre del suo compagno di equipaggio Georgij Katys era una vittima delle purghe di Stalin. Volynov viene nuovamente selezionato per la Voschod 3, ma nel 1966 dopo la morte del “costruttore capo” Sergej Korolëv la missione viene cancellata dieci giorni prima del lancio.
Volynov non perde le speranze e finalmente nel 1969 parte con suoi compagni Aleksej Eliseev e Evgenij Chrunov sulla Sojuz 5, destinata a fare una difficile manovra di avvicinamento e attracco con la Sojuz 4, partita il giorno prima e pilotata da Vladimir Šatalov. Eliseev e Chrunov si trasferiscono nella Sojuz 4 tramite un’attività extraveicolare: è la prima volta nella storia che parte di un equipaggio si trasferisce da un veicolo a un altro in orbita.
Il 17 gennaio Šatalov, Eliseev e Chrunov rientrano senza problemi con la Sojuz 4, nonostante le temperature di 37 gradi sotto zero a terra.
Il giorno seguente tocca a Volynov rientrare da solo con la Sojuz 5. Non è così fortunato come i suoi compagni, anche se l’accaduto si verrà a sapere pubblicamente soltanto molti anni più tardi, dopo il crollo dell’Unione Sovietica.
Volynov dovrebbe orientare manualmente la Sojuz 5 per l’accensione dei retrorazzi, ma non riesce a completare la procedura nei soli nove minuti disponibili e l’equipaggio di terra si prepara ad azionare la procedura automatica nell'orbita successiva.
Finalmente inizia il rientro, ma il veicolo spaziale oscilla violentemente. Che cos’è successo? quando Volynov guarda fuori dall’oblò ha una bruttissima sorpresa: il modulo di servizio è rimasto attaccato a quello di rientro.
All’inizio del rientro i due moduli si dovrebbero staccare in modo che il modulo di rientro, fatto a forma di campana, si possa orientare con la base verso il basso, dove una spessa protezione di materiale ablativo lo protegge dal calore sviluppato dall’attrito con l’atmosfera. In questo modo è invece la “punta” del modulo di rientro a essere rivolta verso il basso e, dato che lì il rivestimento protettivo è molto più sottile, se le cose rimangono così Volynov è destinato a bruciare vivo.
A terra i controllori di volo sono disperati. Fanno girare un cappello che si riempie di rubli: è una colletta per la moglie di Volynov, che sta per diventare vedova.
Sulla Sojuz Volynov mantiene la calma, continua a riferire il suo stato al registratore, strappa le ultime pagine dal suo diario di bordo e se le infila in tasca, sperando che in qualche modo possano evitare di carbonizzarsi ed essere lette dai suoi colleghi.
Il portellone davanti ai suoi occhi si deforma verso l’interno sotto la spinta irresistibile del calore e della pressione. Le guarnizioni del portellone cominciano a cedere e fumi tossici entrano in cabina. Volynov sente un’esplosione: nel modulo di servizio sono scoppiate le taniche di propellente.
Finalmente il calore strappa i collegamenti tra i due moduli, che si separano. Il modulo di rientro si orienta nella posizione corretta, oscillando violentemente. Ma i problemi non sono finiti.
A causa dell’orientamento sbagliato i paracadute si dispiegano solo parzialmente e uno dei retrorazzi che dovrebbero rallentare la discesa non funziona.
L’impatto al suolo è violentissimo. Volynov viene strappato dalle cinture di sicurezza e sballottato nella cabina, spaccandosi diversi denti. È atterrato nelle montagne degli Urali, a centinaia di chilometri dall’obiettivo. Ci sono quaranta gradi sotto zero. È quasi morto durante il rientro, ma ci vorranno diverse ore prima che lo ritrovino e se aspetta lì morirà di sicuro di freddo.
Per fortuna una volta uscito dalla Sojuz vede una colonna di fumo in lontananza e, sputando nella neve sangue e pezzi di denti, si incammina in quella direzione, dove trova rifugio nella capanna di un montanaro.
Molte ore dopo, quando l’elicottero di recupero localizza il veicolo, il suo equipaggio non sa se troverà un uomo vivo o un cadavere. Il portellone della Sojuz è aperto e il veicolo è vuoto. Ma i soccorritori non faticano a ritrovare Volynov: non devono fare altro che seguire le orme degli stivali e le tracce di sangue.
Dopo un rientro come questo, voi salireste di nuovo su un veicolo spaziale? Boris Volynov sì. Nel 1976 vola sulla Sojuz 21, per condurre esperimenti scientifici per un paio di mesi sulla stazione spaziale Saljut 5, insieme a Vitalij Žolobov.
Dopo un mese e mezzo lui e il suo compagno di equipaggio cominciano a lamentarsi di cattivo odore a bordo e mal di testa. Sospettando la presenza di sostanze chimiche tossiche nell'atmosfera della stazione, probabilmente causata da una perdita di propellente, il centro di controllo interrompe la missione.
Al momento di abbandonare la stazione spaziale, i meccanismi di rilascio non funzionano correttamente. La Sojuz si sgancia dalla Saljut ma rimane in qualche modo collegata. Questa situazione preoccupante permane per un’ora e mezza, finché Volynov riesce finalmente a staccare il suo veicolo dalla stazione spaziale.
Durante il rientro la Sojuz incontra forti venti che causano il funzionamento irregolare dei retrorazzi. Il veicolo atterra fuori bersaglio, a 200 chilometri di distanza da Kökšetau, in Kazakistan, con un altro atterraggio duro. Nulla di nuovo per Volynov.
Dopo aver abbandonato il ruolo attivo di cosmonauta, Volynov rimane al centro di addestramento Jurij Gagarin fino al 1990 come funzionario.
Oggi Boris Volynov è ancora vivo, ha quasi 89 anni ed è l’ultimo superstite del primo gruppo di cosmonauti russi. Gli ebrei siberiani hanno la pelle dura.
(fine)